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BDSM


MasterMatrix
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  • 3 mesi dopo...
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Ed intanto qui, Noregrets, si fanno passi da gigante eh.... ti ricordi il mio primo msg?

Un week end con Magisters

Dopo numerose incertezze, alla fine mi ero decisa. Decisa ad incontrare un uomo a Roma che poteva essere affidabile. Snervanti, le chiacchierate in chat su come gestire la cosa e su quali erano le reciproche tendenze. Pochi gli accordi, solo sulle cose che assolutamente non avrei accettato, ma niente o quasi niente su quello che sarebbe accaduto o su cosa avrei subito. Qui descriverò solamente gli avvenimenti essenziali. Non c’eravamo mai visti, nemmeno in foto, ma io descrissi il mio abbigliamento e qualche elemento di me che sarebbe servito a distinguermi una volta arrivata al terminal. Portai con me poche cose: era ottobre e la temperatura era ancora gradevole; avevo addosso un cappotto nero al polpaccio, un paio di scarpe nere col tacco e sotto soltanto una sottoveste nera di raso, corta con le bretelle sottili. Niente altro, niente intimo e niente calze. Una piccola borsetta con all’interno una trousse per il trucco, telefono, portafogli, sigarette e chiavi di casa erano tutto il mio bagaglio. Niente biancheria di ricambio, niente altro. Non mi sarebbe servito altro. Portavo sottobraccio, ben visibile, una copia di Zoom, l’elemento che sarebbe servito per il mio riconoscimento. Arrivai a Roma nel tardo pomeriggio di venerdì e lui, che per comodità chiamerò semplicemente M, si avvicinò abbastanza in fretta presentandosi. Lo avevo immaginato diverso ma era comunque sufficientemente gradevole di aspetto ed era dotato di un bel timbro vocale. Una nota stonata era il suo forte accento romanesco, ma questo era prevedibile e inevitabile. Durante il tragitto in taxi verso la sua abitazione parlammo cordialmente del più e del meno, come due persone incontratesi per affari. A casa, mi offrì un drink e mi invitò a fare una doccia dicendomi che saremmo usciti per andare a cena fuori. Notò con una certa sorpresa che non avevo bagaglio e commentò che avrebbe pensato lui ad ovviare a questo. Mi spogliai in salotto davanti a M che osservò seduto in poltrona senza commentare. Uscii nuda dalla doccia perfettamente asciugata. M mi fece voltare facendomi appoggiare ad uno scrittoio posto sotto ad un grande specchio e facendomi chinare leggermente. Stando dietro di me, mi fece bagnare di saliva un suo dito che poi introdusse nel mio ano senza troppi complimenti. “Volevo vedere di che pasta sei fatta.” Io non dissi niente. Mi ingiunse di stare ferma così e preparò altri due drink. Il mio lo bevvi aiutato da lui. Mi vestii, allo stesso modo di prima, ed uscimmo. Era un bel ristorante elegante, di quelli col maitre che ti accoglie dal suo pulpito con le prenotazioni e che ci invitò a consegnare i soprabiti. Non mi accertai dell’espressione del maitre quando vide che il mio vestito era in realtà una sottoveste molto corta. Mi sentivo in imbarazzo, un misto di vergogna ed eccitazione, ma non era questo che cercavo? La cena scivolò via senza particolari sussulti. M mi raccontò a grandi linee quello che avremmo fatto nei due giorni a venire. Io non commentavo nulla, sembravo pronta ad accettare qualsiasi cosa lui decidesse. Bevemmo parecchio, tanto che a fine cena cominciavo a sentirne gli effetti. M disse che saremmo andati in un locale, non proprio una discoteca ma qualcosa del genere. In taxi mi intimò di sfilarmi le scarpe e di sedermi, col cappotto aperto, con i talloni sul sedile. Non so se il tassista si accorse della mia posizione, ma presumo di sì. Il locale era una specie di disco bar molto grande, luci bassissime, un banco bar rotondo leggermente decentrato, ampi spazi per ballare e per camminare e numerosi salottini lungo le pareti. Al guardaroba, M mi fece consegnare il cappotto, la borsetta e le scarpe, dicendomi che non mi sarebbe servito niente. Le sigarette? “Fumerai le mie”, sentenziò. Mi sentivo praticamente nuda. Cominciammo a passeggiare all’interno del locale quasi buio e ad un certo punto M estrasse di tasca un paio di manette cromate e scintillanti. Mi ammanettò i polsi dietro la schiena. Ed ero quindi così, scalza, ammanettata e con addosso la sottoveste più corta che potesse venirmi in mente. Ero eccitatissima. Era sconvolgente la sensazione di abbandono dalla quale mi sentivo pervasa. Continuammo a camminare ancora un po’, lui al mio fianco, per niente imbarazzato dalla situazione. Era arrivato il momento di un altro drink. Mi aiutò a salire su uno degli alti sgabelli a ridosso del bancone bar. “Riuscirai a bere se ti porto io il bicchiere alle labbra?” “Posso provarci”. Non fu un gran risultato. Molto del liquore finì per scivolare via lungo il collo e sulla sottoveste. M sembrava divertito, probabilmente gli piaceva vedermi così, ma comunque decise di slegarmi per consentirmi di bere il mio Margarita. Gli avventori del locale sembravano tutti molto trendy ed erano diverse le donne in nude look, ma credo che nessuna ostentasse sottomissione come me. L’alcool procedeva incessante nel suo ruolo liberatorio. Mi sentivo pronta per esagerare, nell’animo giusto, ma M proseguiva a non fare niente, non mi toccava, mi aveva solo quasi spogliata in un ambiente in cui non molti sembravano farci troppo caso. Lui, M, non esagerava. Ancora un drink. Ormai ero quasi sbronza. Mi sarei spogliata da sola, forse, ma avevo promesso a lui che avrei fatto solo ciò lui stesso avrebbe deciso. Mi fece alzare e mi riammanettò allo stesso modo di prima, naturalmente in bella vista di tutti. Mi disse di seguirlo al bagno e camminavamo uno di fianco all’altra. Nei servizi c’era un androne con lavandini e specchi e tre porte per i gabinetti, uomini, donne e disabili. Mi spinse dentro al bagno degli uomini e non si curò di chiudere a chiave. Per terra c’era del piscio. Mi fece inginocchiare spingendomi in basso per le spalle. Senza dire niente aprì i suoi pantaloni ed estrasse il cazzo già eretto. Sapevo ciò che dovevo fare. Non era facile fare un pompino senza l’ausilio delle mani. Ma mi piaceva farlo, volevo farlo. Poteva entrare chiunque ma non mi importava. Volevo essere per quel fine settimana la schiava puttana di M, per quel fine settimana, disponibile a tutto (o quasi) ciò che lui volesse. Mentre lo succhiavo mi venne il sospetto che alla fin fine forse M potesse volere da me solo del sesso diverso. Ma in seguito mi dovetti ricredere. Non durò molto a lungo. Con il respiro affannato e qualche gemito silenzioso, M estrasse il cazzo dalla mia bocca e mi venne sul viso. Non ne fece molta, ma quanto bastava per bagnarmi un po’ ovunque. Sempre senza dire una parola si rimise a posto e mi afferrò per i capelli facendomi sollevare. Mi spinse verso lo specchio e mi fece guardare la mia immagine riflessa. “Guardati! Guarda quanto sei puttana con la faccia sborrata. Sei la mia schiava e la mia troia!” Ed io ero eccitata come non mai, ma ad M non venne neanche in mente di toccarmi. Non mi fece pulire o asciugare e mi spinse fuori dal bagno così, con lo sperma sul viso che correva in rivoli verso il collo. Avevo addosso una tale vergogna che faceva a botte con l’eccitazione di essere mostrata quasi come un trofeo. Schiava e puttana e del tutto sottomessa. Era stupendo. E chiunque poteva vederlo. Facemmo qualche giro intorno al locale in modo che potessi essere vista ancora un po’. Non so se M fosse un frequentatore di quel posto, ma non pareva comunque vergognarsi affatto di camminare a fianco di una donna seminuda, scalza e col viso ricoperto di sperma. Fu lui poi a pulirmi con alcuni fazzoletti di carta prima che ci avvicinassimo di nuovo al banco. Ancora un drink, questa volta senza slegarmi. Decise che era il momento che andassimo via. Mi slegò, passammo al guardaroba e chiamò un taxi col cellulare. Non sapevo che ora fosse, ma non mi sembrava tardissimo, a giudicare dal movimento all’esterno. Sul taxi mi fece nuovamente togliere le scarpe e questa volta anche il cappotto. Non molto tempo prima che arrivassimo a casa sua (che, per quanto ne sapevo, poteva anche non essere sua), M tolse di tasca un cutter. Avrei dovuto spaventarmi, ma l’alcool fece sì che non accadesse. Afferrò un lembo della mia sottoveste, vicino all’inguine, vi poggiò la lama e la fece scorrere per tutta la sua lunghezza tagliandola in due. Ora in pratica ero nuda. M prese la sottoveste per le bretelle da dietro e me la sfilò completamente gettandola dal finestrino. Ora ero davvero nuda del tutto. Ma mi piaceva da matti tutto questo. Fece fermare il taxi a circa centocinquanta metri dal portone. “Quello è il portone, lo vedi? Vai e aspettami.” E mi fece scendere e il taxi ripartì, svoltando subito a destra e sparendo dalla mia vista. Camminai a passo spedito verso il portone. Ero eccitata dalla situazione ma cominciavo ad avere paura. Poteva essere pericoloso. Il taxi riapparve dopo un paio di minuti. Probabilmente aveva solo fatto il giro dell’isolato. M scese, pagò la corsa e, con in mano il mio cappotto e le mie scarpe, aprì il portone. “Hai avuto paura?” “Un po’”. A casa, naturalmente, non mi fece vestire, e solo allora pensai che non avevo più il solo vestito che mi ero portata dietro. Mentalmente rimandai la soluzione del problema ad un altro momento. Un altro drink, questa volta era un whisky. Ero veramente sbronza, e questo sicuramente facilitava il tutto. Completamente nuda davanti ad M, completamente vestito, non provavo nessun imbarazzo, stavo benissimo, mi piaceva molto, ma avevo anche voglia di provare altro. Ma non volevo suggerirgli niente. Fra l’ambiente del salotto e la cucina vi era uno stipite, senza porta. Mi fece avvicinare facendomi fermare in corrispondenza della porta che non c’era, dando a lui e le spalle e rivolta verso la penombra della cucina. Prese le mie braccia facendomi afferrare ai due stipiti. Fissò ai miei polsi due polsiere di pelle nera alle quali erano collegate due brevi catenelle terminanti con un moschettone. Solo allora mi accorsi, alzando lo sguardo, che sul muro ai due vertici superiori dello stipite erano fissati due ganci dall’aria robusta. Cominciavo a capire. Mi appese ai due ganci. Erano abbastanza in alto, tanto che potevo poggiare i piedi a terra soltanto con le dita. Mi piaceva sempre di più. Volevo di più. Sentii M armeggiare alle mie spalle con chissà quali attrezzi. “Vuoi essere bendata o preferisci vedere tutto?” Non risposi. Ansimavo nell’attesa. “Cerca di non urlare, se puoi.” “Non urlo mai”, risposi. Naturalmente non era vero ma avevo deciso di sfidarlo sul suo stesso terreno, sapendo bene che avrei perso. Decise di non bendarmi. Io tenevo comunque gli occhi chiusi. Era giunto il momento in cui avrei provato dolore. Ma M, invece, cominciò a carezzarmi da dietro facendo scorrere le sue mani, sorprendentemente calde, lungo il busto, soffermandosi sui seni, massaggiandoli e pizzicandone i capezzoli. Fece penetrare le sue mani disposte a V nell’incavo delle cosce, ma senza però arrivare a toccare la vagina. Ansimavo sempre di più, avida. Mi fece succhiare le sue dita, mentre con l’altra mano frugava fra le mie natiche. Dio. Poi , sempre da dietro, si attaccò ai seni stringendoli forte e poggiando il suo inguine sul mio culo, facendomi sentire il suo membro duro. Si staccò da me e lo sentii allontanarsi. Era bello sentirsi così, alla mercé, senza sapere cosa mi aspettava. Tornò in breve tempo. Sistemò una tavola, una stecca di legno levigato, perpendicolarmente fra le mie gambe, appena sopra le ginocchia, costringendomi a divaricare le gambe. In questo modo ero quasi appesa, sfioravo appena il pavimento con la punta delle dita dei piedi. “Non farla cadere!” Non era un consiglio. Era un ordine. Prese un oggetto, credo fosse una riga da disegno (più tardi ne ebbi la conferma) e la fece scorrere di taglio fra le mie gambe aperte. Ero certamente bagnatissima e non sentivo nessun attrito. Andò avanti per un po’ qualche minuto, facendomi morire di piacere. Poi smise di colpo. Il primo colpo arrivò deciso, brutale, sulle natiche. Emisi un debole lamento. M fece trascorrere qualche secondo. Poi arrivarono gli altri colpi, forti, in rapidissima sequenza, tanto che non seppi contarli. Tutti sul culo, mi sembrava che fossero tutti sullo stesso punto preciso. Cambiò attrezzo. Prese una bacchetta, una verga, non so bene. Credo che mi stessi bagnando sempre di più. Mi piaceva. Lo desideravo da tanto. Anche con la bacchetta fece la stessa operazione di prima, facendola scorrere sulla vagina, ma la puntò anche sull’ano, senza però introdurla. Mi colpì ancora sul culo, questa faceva più male, entrava di più. Ma mi colpì anche sulla parte alta delle cosce, in una zona in cui sopporto il dolore molto meno. Si interessò anche alla schiena, nella zona un cui la colonna vertebrale assume una forma concava. Tutto questo durava ormai da una quindicina di minuti. Si fermò di nuovo. Sentivo le natiche in fiamme, ma non mi dolevano tanto, facevano molto più male la schiena e le cosce. M passò davanti, mettendosi di fronte a me. Io aprii gli occhi. “Ti piace tutto questo?” mi chiese mentre lo vedevo che arrotolava un foulard nero per bendarmi. Non risposi. “Ti ho chiesto se ti piace tutto questo. Rispondimi!” “Sì…” dissi io a voce bassissima. Ora ero bendata. Un vago timore si impadronì di me e nello stesso tempo mi eccitava maggiormente. “Vuoi ancora bere qualcosa?”. Feci cenno di sì con la testa. Afferrandomi per le mandibole, portò il bicchiere alle labbra. Era ancora whisky. Molto del liquido scappò via dal bicchiere scorrendo lungo il collo, il torace, i seni. Ed M si avventò a recuperarlo con la bocca, succhiando e leccando i seni con ampie lappate. “So che ti piacerebbe venire, ma non è ancora il momento.” Allora colpì i mie seni a mani nude, schiaffeggiandoli. Faceva molto male, lo sapevo già, lo avevo già provato e non era una delle cose che prediligevo. M sembrò intuirlo poiché smise dopo solo quattro colpi, due per seno. Mi toccò il sesso, introducendovi due dita. “Sei bagnatissima, mia dolce troia.” Lo sentii di nuovo allontanarsi. Subito dopo sentii un oggetto di plastica, forse di gomma, senza asperità, arrotondato, che veniva fatto scivolare a contatto col mio volto, sul collo e sui seni. Intuii trattarsi di un fallo finto, un dildo, o come cazzo volete chiamarlo. M restava in silenzio. Sentivo il dildo scorrere un po’ dappertutto sul mio corpo, la pancia, il pube. Speravo che non fosse troppo grosso. Lo infilò dentro di me lentamente ma senza tentennamenti o interruzioni. Lo sentivo scavarsi il cammino dentro di me. Era grosso. Più di qualsiasi membro avessi mai conosciuto. Lo fece andare avanti e indietro, non troppo veloce, non troppo lento. Era bello. Sarei venuta presto. Pensavo che fosse strano che avesse scelto di farmi venire in quel modo così banale. Infatti non era così. Lo sfilò repentino, M girò intorno a me, separò le natiche con due dita e fece sprofondare il fallo finto nel mio ano. Lo fece in modo deciso. Dalla mia bocca uscì un lamento per il dolore provato alla prima dilatazione, poiché, istintivamente, avevo stretto lo sfintere. Errore. Eppure dovevo aspettarmelo. M lo mosse dentro di me per un po’, tanto che riuscii a rilassare il muscolo. Il dildo ora, bagnato dal mio liquido vaginale, scivolava nel culo con facilità. Era immensamente bello, per quanto un po’ più fastidioso della sodomizzazione fatta con un cazzo vero. Forse era troppo grosso. Lo sentii che scivolava fuori quasi completamente, poi, con un affondo più feroce degli altri, M lo conficcò in profondità. Lo sentivo tutto. Era lungo e grosso. Mi sembrava di sentirmi devastata. Lo lasciò così ed M si allontanò ancora una volta. Questa volta più a lungo. Mi piaceva sentirmi così dilatata, anche se cominciavo ad avvertire la fatica dovuta alla posizione in cui ero, appesa. Credo che rimasi in quel modo almeno cinque minuti che parvero eterni. M tornò e cominciò a colpirmi il culo con qualcosa, una paletta, che seppi poi essere una racchetta da ping pong. Il piacere stava diventando incontenibile. Tutti i colpi, davvero molto forti, si ripercuotevano all’interno del mio retto dilatato dal fallo. Era stupendo, non avevo mai provato un piacere così intenso. Era diverso da tutte le altre volte. M dovette capirlo dai miei gemiti, visto che continuò a colpirmi a lungo. Ogni tanto pronunciava un insulto che accresceva maggiormente il piacere. Mi diceva, schiava, troia, puttana e cose di questo genere. Sarei venuta, se non si fosse fermato. Ma si fermò. Sfilò il dildo completamente e lo riconficcò in profondità. Come prima. Ero dilatata e la sensazione della nuova penetrazione era molto intensa, quasi che il piacere per l’allargamento dell’ano potesse essere maggiore dell’affondo, cosa che, quest’ultima, io avevo sempre preferito all’altra. M si posizionò di fronte a me. Mi abbracciò dicendomi all’orecchio: “Ti piace sentirti col culo aperto, eh, puttana?”. Io ansimavo forte. Fu allora che M cominciò a leccarmi la figa bagnatissima, facendomi morire di piacere. Resistetti poco e venni di un orgasmo lunghissimo, con contrazioni lente, distanti l’una dall’altra. Dio. Avevo avuto davvero un orgasmo fragoroso, con delle urla sommesse, dei rantoli rumorosi. Mi sentivo davvero la sua schiava puttana. E mi piaceva da matti. Dopo il mio orgasmo M non si fermò, ma smise di leccarmi e mi penetrò con le dita, credo almeno tre. Le rivoltava continuamente all’interno della vagina che doveva essere fradicia. Le gambe mi facevano male per la forza che dovevo imprimere per non far cadere la stecca. Poi si fermo del tutto. Tolse la stecca, sfilò il dildo e mi sganciò le polsiere. Quando tolse anche la benda dagli occhi mi ritrovai col suo viso vicinissimo al mio. “Ti piace essere la mia schiava?” “Sì.” “O preferisci qualcos’altro?” “Schiava e puttana” risposi. M sorrise. “Ho bisogno di pisciare. Vai in bagno.” Sapevo che sarebbe successo. Aveva esplicitamente sottolineato l’argomento, chiedendomi la disponibilità ad accettarlo, prima di conoscerci. “Entra nella vasca e sdraiati.” Lui si scaricò su di me dirigendo il getto del piscio su tutto il corpo. Tenevo gli occhi e la bocca serrati e lui non mi disse di aprirli e non lo feci. Pisciò a lungo. Era per me, questo, un grande segno di sottomissione. Non che mi facesse impazzire ma lo accettavo volentieri. Mi faceva sentire ancora più porca, se possibile. Quando M finì ero completamente inzaccherata di piscio. Il puzzo era tremendo. “Fai una doccia.” E sparì fuori dal bagno. Feci uso del water e mi lavai accuratamente. Fortunatamente la casa era ben riscaldata. Quando tornai in salotto trovai M in boxer, svaccato in poltrona, con un bicchiere in mano. “Ora andiamo a letto.” Si alzò, mi prese per mano e mi condusse in camera da letto, una delle due stanze che ancora non avevo visitato. Era una comunissima camera da letto come tante, con armadio, comodini, comò, specchio e lettone. Mi fece sdraiare. Io ero sempre nuda ed ero consapevolmente a mio agio, non avrei voluto rivestirmi per niente al mondo. M si spogliò. Aveva un fisico normale e non era affatto grasso, cosa che avrei avuto difficoltà a digerire. Facemmo l’amore in modo tradizionale e lui fu stranamente dolcissimo, come un vero innamorato. Mi baciò e mi leccò, mi prese in due modi diversi, missionaria e doggy style. Io venni due volte. Scopava bene, M. Lui volle venire sul mio viso. Questa volta davvero poche gocce. Si rilassò al mio fianco per qualche tempo. Credo che perfino si addormentasse per qualche minuto. Io ero contenta. Ero felice. Stavo davvero bene. Era ormai quasi un anno che non mi sentivo così. Ma dentro di me sentivo che non avrei voluto ripetere l’esperienza di affidarmi ad un quasi sconosciuto. Volevo sì, essere una schiava puttana, ma del mio uomo, l’uomo che mi avrebbe fatta innamorare perdutamente e al quale non avrei negato nulla di quanto lui avrebbe voluto infliggermi. Ma era fondamentale l’amore. M, lui non mi avrebbe fatta innamorare, lo sentivo, lo sapevo. Avevo scelto lui per questa perdizione da fine settimana perché alla fin fine mi era sembrato il meno peggio fra quelli con cui avevo chattato. Ma non ci sarebbe stato futuro. Non poteva esserci. Non lo desideravo. Semplicemente. Avevo deciso di farlo per un bisogno quasi fisico. Ma bastava così. M si alzò dal letto e mi disse di seguirlo. “Non pulirti il viso.” Mi condusse nell’altra stanza. “Tu dormirai qui.” C’era una branda senza materasso, con le stecche di legno, un tavolinetto basso e da un gancio nel muro, alla stessa altezza del letto, pendeva una catena di circa un metro con all’estremità una cavigliera di metallo. Mi sdraiai ed M assicurò una mia caviglia alla catena. Uscì e portò un catino che depose a terra, una bottiglia d’acqua e un bicchiere e li mise sul tavolino. “Buonanotte”, disse. “Buonanotte”, risposi. E andò via.

Ero stanchissima, ubriaca e volevo finalmente abbandonarmi al sonno. Cominciai a vagare nell’oblio riflettendo su chissà quante e quali donne avevano giaciuto prima di me su quella branda. Non ero ancora del tutto addormentata quando sentii aprire la porta e vidi nella penombra M che poggiava ai piedi del letto una coperta e subito dopo richiuse la porta. Sorrisi fra me. Ah! Ma allora M alla fine era un tenerone! Poi il buio pesto. Un dolore lancinante al culo mi fece svegliare di soprassalto. Aprii gli occhi, rincoglionita dal sonno e dai postumi della sbronza e vidi la figura di M in piedi che mi sovrastava con una cinghia in mano. Mi aveva colpita con quella. Ebbi un moto di stizza. Mi faceva proprio incazzare essere svegliata in quel modo. Feci per rivoltarmi con l’istinto di afferrare la cinghia e strappargliela di mano. Ma mi trattenni. In un attimo mi ritornò tutto alla memoria. Dovevo accettare anche questo. Rientrava nei termini stabiliti e non era una cosa di quelle sottolineate come da evitare, anche se M si dimostrò in questo frangente un gran bastardo. M mi sciolse dalla catena. “Sbrigati che devo pisciare.” Era nudo e il suo uccello era semirigido. Mi alzai con qualche difficoltà, ancora completamente imbananita. Io, che al mattino devo aspettare almeno mezz’ora, prima di capire che sono viva e in che mondo mi trovo. Andai al bagno e mi infilai nella vasca. Stesso copione. M si svuotò la vescica su di me. Questa volta durò molto di più e lui diresse con più insistenza il getto di piscio sul mio volto. Speravo che non mi chiedesse di aprire la bocca. Non lo fece. Mi lasciò in bagno a fare le mie cose. A giudicare dalla luce non doveva essere molto presto. Infatti non lo era. Erano passate da poco le undici. Quando uscii dal bagno, lavata profumata e truccata, trovai il caffè fumante. Lui era seduto sulla sedia, un po’ scostata dal tavolo, in boxer, pantofole e giacca del pigiama che sorseggiava il suo caffè. “Inginocchiati qui.” Mi inginocchiai e mi diede il caffè da bere. Era buono, caldo. Ci voleva. “Ora fammi un pompino.” Presi in bocca il suo cazzo molle che si indurì presto nella mia bocca. Lo succhiai per un po’, poi lui mi allontanò. Evidentemente non voleva venire. “Finisco di vestirmi ed usciamo.” Per me ci volle poco. Indossai il cappotto e le scarpe ed ero pronta, non avevo altro. “Andiamo a comprare qualcosa da metterti.” Uscimmo a piedi. Era una mattina soleggiata e faceva caldo per il cappotto, ma non potevo certo levarlo e nemmeno aprirlo. Camminammo per una ventina di minuti fianco a fianco ed entrammo in un negozio di intimo che si chiamava Cherie o Charmant o qualcosa del genere. Era un bel negozio di lusso, ampio e con due vetrine. All’interno c’erano due commesse, una intenta a sistemare qualche capo e l’altra ci venne incontro pronunciando il classico “Posso esservi utile?” Io non risposi, ma guardai M con fare interrogativo. Infatti, parlò lui. “Vorremmo vedere qualche sottoveste.” La commessa ce ne espose parecchie e quando M ne vide una che somigliava molto a quella che aveva fatto a pezzi, mi guardò. “Che ne dici?” Feci segno di sì con la testa. “Vuoi provarla?” “Sì.” “Il camerino è da quella parte” intervenne la commessa. “No, la proverà qui.” E completò la risposta sfilandomi il cappotto. Rimasi nuda e con le scarpe davanti alla commessa nel negozio fortemente illuminato. Dovevano essere ben visibili anche i segni che avevo sulle natiche. Indossai la sottoveste. Era un po’ più corta della mia, copriva a malapena l’inguine, e lo scollo era a V, un po’ più pronunciato. “Direi che va bene.” Io annuii. Mi ridiede il cappotto, pagò ed uscimmo. “Ora andiamo a pranzo. Stasera avremo degli ospiti.” Ecco. Mi avrebbe mostrata, esibita come un oggetto di sua proprietà e chissà cos’altro. Ma questo era uno degli aspetti che più mi attraevano dell’essere schiava puttana. Questa volta il ristorante era più comune, molto meno lussuoso di quello della sera prima. M scelse un tavolo angolare in fondo alla sala. Fortunatamente fece accomodare me nell’angolo più nascosto e quindi meno visibile. La nuova sottoveste non era sufficientemente lunga da coprirmi il culo e fui costretta a sedermi con le natiche direttamente a contatto con la sedia. Ancora più nuda di ieri. Anche davanti non riusciva a coprire niente. I peli pubici sarebbero stati visibili, non fosse stato per la tovaglia. Mangiammo con tranquillità, senza fretta, piatti semplici, quasi caserecci. Durante il secondo, M mi disse di far scivolare giù una spallina, in modo casuale, come fosse un incidente, una distrazione. Ma non ottenne il risultato desiderato, non scopriva niente. Allora mi disse di sfilare il braccio dalla spallina. La sottoveste era abbastanza aderente sul busto e quindi non scivolò giù ma la manovra scoprì una porzione abbondante di seno, pur senza metterlo a nudo del tutto. A seconda dei movimenti risultava visibile il capezzolo. M sorrideva sornione. Anche io sorridevo. Si cominciava ad essere complici. Sentivo addosso gli sguardi del personale e degli altri clienti. Il pranzo terminò. Tenne lui il mio cappotto finché restammo ancora all’interno del ristorante e durante tutte le operazioni seguenti, l’attraversamento della sala e l’attesa alla cassa mentre M strisciava la sua carta di credito. Con tutta probabilità si vedeva l’attaccatura delle natiche e la spallina era sempre sfilata. Non avvertivo più nessuna vergogna, ero anzi divertita e mi piaceva molto. Uscimmo e mi ridiede il cappotto. “Non mi piacciono le tue scarpe” disse M. Non gli piacevano? Le mie decolleté? Cazzo, con quello che le avevo pagate! “Adesso andiamo a cambiarle”, continuò. Trovammo un negozio di scarpe aperto e prima di entrare M mi disse di slacciare i bottoni del cappotto. Scelse per me un paio di sandali molto eleganti e molto sexy, con un tacco di una decina di centimetri e una striscia sottilissima di pelle beige come tomaia. Erano veramente molto belle ed era come essere a piedi nudi. Probabilmente M rimase deluso poiché il commesso non guardava mentre provavo le scarpe. Naturalmente M volle che le tenessi ai piedi e mise le mie decolleté nella scatola. C’incamminammo verso casa. “Spogliati” mi disse M appena entrati. “Ora preparo un caffè.” Mi sarei spogliata anche senza che lui me lo dicesse. Ormai mi piaceva proprio stare nuda con M. Mi fece sedere per terra con le gambe incrociate. Mentre sorseggiavamo il caffè mi disse che entro mezz’ora sarebbero arrivati i suoi amici. Dovevano essere cinque in tutto, e con lui sarebbero stati in sei. Mi disse anche di non preoccuparmi, erano persone degne della massima fiducia e per niente stravaganti, profondamente rispettosi degli accordi presi. Avevamo mezz’ora di tempo e M disse che voleva sculacciarmi a mani nude. Bene. Una delle cose che preferivo in assoluto. Si accomodò al centro del divano e m’invitò a sdraiarmi su di lui a pancia sotto. Mi distesi completamente allungando le braccia fino ad afferrare il bracciolo e divaricando leggermente le gambe. M iniziò a carezzarmi nel solco fra le natiche fino alla vagina e lambendo il clitoride. Agguantò le natiche stringendole forte e cominciò a colpirmi. Copi forti, decisi, dati a mano piena. Mi piaceva moltissimo e mi bagnavo. Mi sculacciò a lungo, non volevo che smettesse. Sentivo il suo affare duro contro la pancia. Dopo dieci o quindici minuti mi fece spostare, si alzò e mi disse di mettermi in ginocchio sul tappeto, col volto a terra e le ginocchia molto distanti fra loro. Le mie parti intime erano così totalmente esposte. Prese a sculacciarmi direttamente fra le natiche, colpendo l’ano e la vagina. Faceva più male ma era bello lo stesso. Si fermò, passò davanti a me, mi afferrò per i capelli sollevandomi la testa, si aprì i pantaloni e mi diede il cazzo duro in bocca. Si mosse forsennatamente per qualche istante. In pratica mi scopava in bocca. Poi si fermò di nuovo e si rimise a posto i vestiti. “Ora vai in bagno, lavati. E’ quasi ora. Devo prepararti.” Andai in bagno, usai il water e mi lavai con perizia. Quando uscii dal bagno vidi vicino alla finestra il tavolino che era nella camera dove avevo dormito. C’erano sopra alcune cose in bella mostra: una riga, una racchetta da ping pong, un mestolo di legno, due falli finti uguali, alcune mollette per stendere i panni, una bacchetta di legno e uno scudiscio. Una benda, un collare di cuoio con guinzaglio, un paio di manette. Lo scudiscio m’impressionò. Non avevo mai provato una frusta vera e propria. M si avvicinò a me e mi baciò sulla bocca. “Sei pronta per essere veramente una schiava?” “Sì.” Mi fece inginocchiare sotto la finestra, con la faccia molto vicina al termosifone. Legò i miei polsi con del nastro adesivo, tenendomi le braccia allargate, che attorcigliò annodandolo ad altri due ganci presenti sotto la finestra, ai due lati del termosifone. Sentivo il calore, ma per il momento non era eccessivo. La posizione doveva essere in qualche modo studiata in quanto, per poter stare un po’ più comoda, ero costretta a divaricare le ginocchia. Mi bendò. “Ora aspettiamo.” Mise della musica. Jeff Buckley. Almeno aveva buon gusto. Aspettammo un bel po’. Gli amici di M erano in ritardo. Oltre alla musica a basso volume M non parlava, ma lo sentivo sfogliare un giornale. Era una strana attesa per me. Ero nuda e legata in ginocchio ed aspettavo che arrivasse della gente per vedermi e chissà cos’altro. Ma non avevo paura. Ero leggermente e piacevolmente eccitata. Alla fine suonò il campanello. Entrò gente. Io davo le spalle (o meglio, il culo) alla porta, ma ero bendata, non vedevo niente. Potevo solo sentire. Saluti. Inviti ad accomodarsi. Calò il brusio, il frastuono. Mi batteva forte il cuore. M parlò. “Ragazzi, questa è Mushanga, una slave che viene da fuori. Potete fare quello che volete tranne tutto quanto già sapete che deve essere evitato. Mushanga è una brava schiava e una brava troia. Accetterà volentieri le vostre attenzioni”. Sentii una selva di nomi di presentazione. Potevano essere Giorgio, Enrico, Mario, Michele, Ettore, ma anche Lino, Franco, Stefano, ecc. Non li avrei mai ricordati. Li sentivo parlare fra loro di cose comuni, banali, battute fra amici. E sentivo mani, dita. Mi frugavano, stringevano le mie carni, mi soppesavano. Qualcuno mi mise dentro delle dita. “Ehi, ma tu sei già bagnata! Come hai detto che ti chiami?” “Mushanga”, risposi. “Mm, un bel nome da slave. Complimenti.” E mi rifilò un paio di sculacciate, tanto per gradire. “Allora, ci facciamo questo Risiko?” Era M che parlava e tutti risposero entusiasticamente. Risiko? Ma gli uomini non crescono mai? Mi stizziva il pensiero che degli uomini grandi si mettessero a giocare a Risiko, con me in quelle condizioni. Ma mi resi conto che era proprio questo che volevano. Ritenermi una nullità, come un cagnolino che sta a cuccia mentre il padrone fa i propri comodi, felice anche solo di poter stare vicino alle sue gambe, in silenzio. E così, li sentivo infervorarsi nel gioco: attacco con due, rispondo con uno, attacco la Cina dalla Mongolia e via di questo passo. Ed io ero lì, in ginocchio, legata e bendata, completamente esposta ai loro sguardi, in attesa che qualcuno si degnasse di toccarmi, di picchiarmi, di seviziarmi, di servirsi di me. Cominciavo ad abituarmi, a rilassarmi, anche se non so per quanto tempo ancora avrei sopportato di stare in quella scomoda posizione. Oltretutto sentivo più intenso il calore del termosifone. Trascorse molto tempo e molte battaglie. Pare che fosse M a vincere. Si capiva che a loro il gioco piaceva molto. Uno di loro disse che si sarebbe alzato a sgranchire le gambe. E mi afferrò per le chiappe stringendole molto forte. Poi mi mise le mollette ai capezzoli. Dolore. Non mi era mai piaciuto. Tornò al tavolo. Un altro chiese se io fossi pulita. M garantì per me. Si mise a leccarmi l’ano mentre mi pizzicava forte il clitoride. Dolore e piacere. Tutto insieme. Poi infilò due dita nell’ano, in modo brutale. “Stasera sarai la nostra zoccoletta. Vedrai che non te ne pentirai. Siamo bravi, lo sai?” “Dai, vieni a giocare!” disse qualcun altro. Trascorsero almeno un paio d’ore da quando avevano cominciato il loro stupido gioco. Poi M: “Che ne dite, facciamo una pausa e ci dedichiamo un po’ alla nostra schiava?” Accolsero tutti di buon grado la proposta. Da quel momento in poi non capii più chi faceva una cosa e chi un’altra. Ero colpita alternativamente credo da tutti gli attrezzi che M aveva preparato. Mi stavano veramente martoriando. E non era risparmiata nessuna parte del corpo. Persino nella pianta dei piedi ricevetti dei colpi dolorosissimi, probabilmente con la bacchetta di legno. Mi penetrarono con molte cose, e facevo fatica a distinguerle. Credo fosse proprio M, quello che mi colpiva alla schiena con lo scudiscio. Ero bagnata. Non urlavo, ma mi lamentavo sommessamente. Sentivo la pelle in fiamme ovunque. Rallentarono la frequenza dei colpi. Continuavo però a sentire lo scudiscio sul culo. I membri. Mi strofinarono a lungo i loro membri sul corpo, tranne che sul culo che continuava ad essere fustigato. Poi i falli finti, nell’ano e nella vagina, insieme. Era devastante. I colpi erano incessanti. Poi sentii che qualcuno mi scioglieva la benda. Era M. “Ti ho tolto la benda perché tu veda che sarò solo io a scoparti.” Faceva parte dei patti. Tolse il dildo dall’ano. E m’inculò violentemente. Mi strattonava di brutto tenendomi per i fianchi, ansimava come un animale. Un altro da sotto si mise a muovere il fallo finto nella vagina. Era bellissimo, godevo come una pazza. M m’inculava di brutto, mi faceva impazzire. Di tanto in tanto sentivo lo scudiscio abbattersi sulla schiena. Mentre un altro mordeva i capezzoli. Non ero mai stata trattata così. Era un piacere sconvolgente sentirsi inerme, subire, essere trattata come una puttana, disponibile a tutto, pronta ad accettare tutto, anche se non era vero. Avevamo posto dei limiti. “Scioglietela” disse M. Lui si sfilò dal mio ano e venne di fronte a me per darmelo in bocca. “Dai, adesso succhialo!” Lo presi in bocca. Ormai ero avida. Agognavo il suo cazzo. Gli altri si misero in cerchio masturbandosi. Sapevo come sarebbe andata a finire. M fu il primo a venire e ad uno ad uno ricevetti sul volto le sborrate di tutti gli altri. Ero ricoperta di sperma. Si calmarono un attimo, giusto cinque minuti. “Fermiamoci un attimo” disse M agli altri. “Ora la mandiamo a lavarsi.” Venni accompagnata in bagno ma, contrariamente a quanto pensassi, rimasero tutti lì ad osservarmi mentre mi lavavo. Ero tutta un dolore, non tanto per i colpi ricevuti, quanto per la sensazione di avere le gambe anchilosate, costrette a lungo in posizione rannicchiata. Me la presi con calma, non avevo nessuna fretta di ricominciare. Alla lunga, si spazientirono ed uscirono dal bagno per riprendere la loro attività ludica. Qualcuno pensò che sarebbe stato bene procurarsi qualcosa da mangiare. “Perché non andiamo a comprare qualcosa e ce la portiamo dietro vestita da puttana?”, disse qualcuno. “Non ha vestiti con sé” rispose M, “solo un cappotto e una sottoveste. Ma qualcosa ci inventeremo.” Quando tornai in salotto erano tutti seduti al tavolo e stavano smontando il loro Risiko. Forse avevano finito o forse si erano stufati. “Ora usciamo per prendere da mangiare”, mi disse M.” Mi portò le scarpe, la sottoveste e il cappotto, li indossai e uscimmo. Vidi che M prese qualche attrezzo con sé, prelevandolo dal tavolino. Ci spostammo in due auto. Io ero in quella guidata da M con altri tre ragazzi e venni fatta accomodare in mezzo a due di loro nel sedile posteriore. Cominciava ad imbrunire. M fermò l’auto davanti all’ingresso di un parco. Credo si chiamasse Villa Gordiani. Non si vedeva molta gente in giro. Mi mise il collare al collo e mi trascinò per il guinzaglio. Passeggiammo per un po’ lungo i viali del parco ed M mi aiutò a togliere il cappotto facendomi restare con sottoveste e scarpe. Il parco era poco frequentato. Si vedevano delle coppiette intente ad amoreggiare sulle panchine o sul prato, gruppi di giovani con radioni che bevevano e probabilmente fumavano spinelli. Ogni tanto sentivo una palpata sul culo o una sculacciata. Alla fine giungemmo in una zona meno illuminata e, in quanto tale, con una maggiore concentrazione di gente. Ma non ci avvicinammo mai più di tanto alle persone. In quel momento M mi disse di consegnargli anche le scarpe e di mettermi in ginocchio. Mi fece camminare a quattro zampe. Io tenevo la testa bassa. Non mi piaceva questa cosa, avevo troppa vergogna ed anche un po’ di paura. Sapevo che i frequentatori del parco ci stavano guardando, stavano guardando me. La sottoveste mi era risalita fin sulla schiena. Mi fecero camminare carponi per un po’, non troppo distante dalla gente che sicuramente osservava, trascinata per il guinzaglio, come un cagnolino. Ero spaventata, ma in qualche modo anche eccitata. Pensavo fra me che non avrei dovuto correre nessun rischio visto che era scortata da ben sei persone, ma chi può mai dire come possono evolversi certe cose. Comunque, non successe niente. Mi dolevano un po’ le ginocchia a furia di pestarle sulla ghiaia. Poi, effettivamente, andammo a prendere da mangiare in una pizzeria da asporto. Non mi restituirono il cappotto e neppure le scarpe, ma sganciarono il guinzaglio dal collare, che invece rimase al suo posto, al mio collo. Mentre due dei ragazzi acquistavano le pizze, io rimasi in auto con M e altri tre. Mi fecero spogliare completamente obbligandomi a stare in ginocchio sul sedile posteriore, fra due di loro. Sicuramente furono in parecchi a vedermi col culo per aria dentro l’auto. Ripartimmo e dovetti rimanere nella medesima posizione e uno di loro armeggiava con le dita nelle mie parti intime. Tornammo a casa di M. Saranno state più o meno le otto di sera ed era già buio. C’era abbastanza movimento di gente per strada e mi consentirono soltanto di indossare il cappotto, senza infilarlo, solo appoggiandolo sulle spalle. Avevo freddo ai piedi. Mentre scartavano le pizze venni mandata in bagno a lavarmi i piedi. Non avevo ancora terminato quando vidi M entrare in bagno con una peretta per clisteri, invitandomi ad utilizzarla perché “ti vogliamo con il culo pulito”. Feci il clistere con l’acqua calda e mi liberai. Una cosa dolorosa e fastidiosissima. Sempre nuda, venni fatta stendere sul tavolo a pancia in giù. Mi consentirono di mangiare qualche pezzo di pizza che era stata già tagliata, proibendomi però di aiutarmi con le mani. Mi legarono al tavolo assicurandomi i polsi, ma anziché avere le braccia allargate, vennero disposte lungo il busto, e le caviglie vennero legate, tenendo le gambe ben separate, avvicinandole di molto al punto in cui erano stati fissati i polsi, costringendomi così ad avere il bacino molto sollevato e ben esposto. Continuarono a mangiare, io smisi subito, non avevo fame. Mentre mangiavano mi toccavano, commentando fra loro quanto fossi troia e remissiva. M mi bendò ed avvicino alla mia bocca un fallo finto, intimandomi di succhiarlo. Lo feci. Immaginavo cosa avessero in mente e cercai di inumidirlo il più possibile. Era lui stesso a spingerlo ripetutamente fra le mie labbra. In quel momento arrivarono le frustate sul culo, fortissime, decise, arrivavano, presumo, dall’alto con un ampio arco. Il bruciore era intenso e ad ogni colpo non riuscivo a trattenere un lamento sommesso. M continuava a spingermi il fallo in bocca, sentivo altre mani torturarmi i capezzoli. E il mistero della mia eccitazione al dolore si rinnovò, sentivo che mi bagnavo. I colpi di scudiscio erano incessanti, regolari, sentivo le chiappe in fiamme, ma sentivo anche che mi bagnavo, mi piaceva come può piacere ad una pazza il dolore della frusta. I lamenti di dolore erano lamenti di piacere. Avrei voluto essere inculata e contemporaneamente sentire quel dolore bellissimo che mi stava sconvolgendo il cervello. Continuò a lungo, molti minuti, non saprei dire quanto, sarei venuta, ma non volevo venire, volevo che continuasse. Ormai il dolore era quasi svanito, restava solo il piacere, ero narcotizzata. Ma si fermò. Solo allora M smise di soffocarmi col fallo finto e lo fece penetrare lentamente, ma fino in fondo, nell’ano. “Ora facciamo il gioco dello schiaffo. Ognuno di noi avrà un numero e tu dovrai indovinare chi sarà a sculacciarti. Ti prometto che non bareremo, ma se tu sbaglierai sarai punita.” A turno ognuno di loro pronunciò un numero da uno a sei. E cominciarono. Inutile dire che sbagliai molte volte e le punizioni erano frustate, ma dovevo essere io a scegliere dove essere colpita e doveva essere sempre un punto diverso. Venni colpita ovunque, su tutta la superficie della schiena, delle gambe, i piedi, perfino l’interno delle gambe. Mi sembrava di bollire, ma quelle che loro credevano fossero punizioni erano in realtà fonte di ulteriore piacere. Ero quasi divertita da quel gioco. Ad un certo punto M mi disse di volermi frustare anche sul davanti, chiedendomi se fossi disposta ad accettarlo. Non rientrava nei patti ma accettai chiedendo loro di colpirmi meno forte. Loro acconsentirono, a patto che fossi libera di ricevere lo scudiscio senza impedimenti, senza essere legata e senza spostarmi. Mi misero in piedi, con le gambe divaricate e le braccia incrociate sopra la testa. Mi tolsero la benda ma lasciarono conficcato il dildo nell’ano. Decisero che mi avrebbero colpita a turno con dieci colpi a testa. Furono di parola e le scudisciate erano molto meno intense delle precedenti. Erano strano vederli in volto mentre mi frustavano, non mi era mai successo e la cosa mi eccitava maggiormente. Mi colpirono i seni, la pancia, l’inguine, le cosce, ma era sulla pancia che sentivo più forte il bruciore, non riuscivo a sopportarlo. Ma resistetti fino alla fine delle sessanta scudisciate. Poi crollai a terra. Ci fu probabilmente un momento di indecisione e di imbarazzo in loro, forse preoccupati di aver tirato troppo la corda. Stetti qualche istante a terra in silenzio. Il mio ansimare rompeva il non suono della stanza. Poi fu io a dire, in un sibilo, stentando a credere che quelle parole fossero davvero pronunciate dalla mia bocca. “Fatemi venire… non ne posso più…”. La mia richiesta, in qualche modo, sconcertò gli uomini, ma dovette avere un effetto rilassante e liberatorio. Accadde tutto velocemente. Mi venne sfilato il fallo dall’ano e uno di loro prese a muoverlo nuovamente dentro la bocca. Un altro dildo mi venne introdotto nella vagina, una molletta strinse il clitoride ed altre i capezzoli. Messa in ginocchio, M mi inculò nuovamente senza nessuna pietà, in un colpo secco, brutale, profondo. Sentivo dentro di me il cazzo vero e quello finto mossi velocemente e senza rispetto alcuno, colpi di scudiscio sulla schiena, l’altro fallo finto spinto in bocca fin quasi in gola. Venni in pochi minuti, con un rantolo soffocato, roco, prolungato. Allora si fermarono. “Adesso ti sborriamo tutti!” “Sìì…” risposi io in un lamento di gioia. Lo volevo, volevo tutto il loro sperma, tutto lo sperma del mondo e ne ero felice. Mi sentivo come drogata. Mi sdraiai a terra, col viso in alto, agognando il mio battesimo di sperma, soverchiata dalle loro figure che mi guardavano in piedi. E vennero tutti su di me, sul mio viso, inginocchiandosi o chinandosi per non fare cadere neanche una goccia fuori dalla mia faccia. Mi sentivo davvero felice di tutto questo. Ero nuda, per terra, sdraiata come una troia, ricoperta di sperma, ero stata maltrattata, derisa, insultata, frustata ed il mio cuore gioiva per questo. Ansimavo. Non mi importava più nulla. Avrebbero anche potuto scaricarmi, ora, nuda per strada e lo avrei accettato, ero felice di essere stata la loro schiava. So che era un pensiero del momento, ma non nego di aver pensato che sarei stata contenta di essere la schiava puttana di M per tutta la vita, tutti i giorni, tutte le ore, tutti gli istanti. Ma ovviamente non era così. Quel desiderio sarebbe svanito, man mano che la calma avrebbe preso il sopravvento sulla frenesia dell’orgasmo. “Vuoi essere lavata?”, disse M. Capii cosa intendesse dire. Feci segno di sì con la testa, cominciando ad alzarmi da terra. Entrai in bagno, consapevole di cosa mi aspettasse, e entrai nella vasca. Non mi sdraiai ma mi misi inginocchiata con la schiena appoggiata alle piastrelle che rivestivano il muro. Chiusi gli occhi e attesi. Il primo getto mi colpì su una guancia come uno schiaffo e in breve arrivarono gli altri. Ero stordita, sconvolta, ubriaca di piacere. Nessuno me lo chiese ma volli aprire la bocca. I getti di piscio mi bagnavano ovunque, quelli diretti in bocca non li ingoiavo, ma lasciavo che la bocca si riempisse per poi traboccare lungo il mento e il collo. Poi mi misi carponi e mi lasciai pisciare sul culo. Ad uno, i getti si affievolirono. Allora mi sollevai e afferrai alternativamente i loro membri umidi strofinandoli sul viso. Non capivo più niente. Sempre restando dentro la vasca, mi alzai in piedi e diedi loro le spalle, poggiando le mani sulle piastrelle. “Colpitemi ancora… ne voglio ancora, picchiatemi, fatemi sentire la vostra schiava, la vostra puttana…”. Ricordo che riflettei qualcosa sulla mia follia di quel sabato sera. Ma era così: ora o mai più! Ero completamente lordata di piscio e di sperma e ne ero felice, ma volevo ancora sentire dolore, quel dolore umiliante che tanto mi faceva arrivare vicina all’orgasmo. Uno di loro prese a scudisciarmi sul culo, un altro mi colpiva con la riga, un altro ancora con qualcos’altro. Ormai lo facevano senza più trattenersi, colpendo per fare veramente male. M si spogliò, si mise con i piedi sui due bordi della vasca e mi diede il cazzo in bocca. Feci il pompino più avido della mia vita. Ed M sborrò di nuovo sul mio viso, con gli altri che continuavano con quello che ormai era diventato un vero pestaggio. Mi lamentavo. Mi lamentavo. Mi lamentavo. Cominciarono a sgorgare le lacrime. Fu allora che smisero. E si presero cura di me come degli angioletti. Mi lavarono con cura, con infinita delicatezza, l’acqua calda leniva il bruciore che sentivo ovunque. Mi asciugarono e mi cosparsero la pelle di talco profumato. Poi, avvolta in un accappatoio di diverse misure più grande, venni fatta stendere sul divano a riposare. Nel giro di qualche minuto gli amici di M andarono via, lasciandoci da soli. M mi chiese se avevo fame. Ne avevo. Preparò per me dei tortellini in brodo. Ero veramente sfinita. Mi portò nel suo letto, mi spogliò e mi leccò la vagina e il clitoride e l’ano. Sapeva farlo bene, contrariamente alla maggior parte degli uomini. Venni dopo pochi minuti. Mi addormentai per un po’. Poi M mi svegliò dolcemente dicendomi che mi avrebbe portata nella mia cella. Portò con sé uno dei due falli di gomma e del nastro adesivo colorato largo. Assicurò una mia caviglia alla catena e questa volta legò anche i polsi fra loro con il nastro. Ma non aveva finito. Sollevò la gamba libera prendendola per la caviglia e penetrò per l’ennesima volta il mio ano con il dildo. Lo assestò molto bene in profondità. Con il nastro adesivo creò una specie di mutanda sul mio inguine per fare in modo che il fallo non fuoriuscisse. Mi baciò con la lingua. “Se devi pisciare, fattela addosso. Buonanotte.” E se ne andò. Mi addormentai immediatamente. Ebbi la sveglia con un dolore diverso da quello della mattina precedente. M stava togliendo il nastro dal bacino strappando molti dei peli pubici. So che lui avrebbe voluto rasarmi, ma non glielo avevo concesso. Mi piacciono i miei peletti. Mi slegò e senza ancora sfilare il dildo e senza profferire parola, mi condusse in bagno e mi pisciò addosso. E questa volta la fece tutta sul viso. Tolse il fallo dall’ano e mi lasciò a rassettarmi. Erano le ultime ore che avremmo trascorso insieme. Il mio volo partiva alle 14. Quando uscii dal bagno bevemmo il caffè ed M mi chiese di succhiarlo ancora una volta. Lo feci. Ma ancora una volta non volle venire. “Come sei stata?” “Sono stata bene”, risposi. “C’è stato qualcosa che abbiamo fatto che non avresti voluto, o qualcosa che avresti voluto e che non abbiamo fatto?” “Riflettei un attimo prima di dare la risposta. “Forse avrei voluto essere scopata da tutti, forse avrei voluto una vera frusta, ma forse è meglio che sia andata così.” M sorrise. Erano oltre le undici, restava davvero poco tempo. “Sono felice. Sono felice di essere nuda. Non vorrei mai più rivestirmi.” Il mio corpo era ancora solcato dai segni, ma non sembravano molto gravi. Nel giro di qualche giorno sarebbero scomparsi. Senza aggiungere altro, mi distesi sulle sue gambe. “Sculacciami, per favore…” Ed M lo fece. Quando smise mi disse: “Vuoi fare un’ultima cosa per me?” Io non risposi. “Voglio che tu parta senza mettere la tua sottoveste. Voglio che tu sia nuda sotto il cappotto e voglio che non lo abbottoni completamente.” Sorrisi. “Certo. Lo farò.” In taxi mi regalò il fallo di gomma dicendomi che gli avrebbe fatto piacere se ogni tanto lo avessi infilato nel culo pensando a lui.” Arrivammo a Fiumicino con un leggero anticipo sul check-in. “C’è ancora un po’ di tempo. Mi hai reso felice. Anche io voglio farti un regalo.” Lo presi per mano e ci dirigemmo ai bagni. Ancora nell’androne, ancor prima di entrare nel gabinetto, mi sfilai il cappotto rimanendo con le bellissime scarpe compratemi da M. Accostai la porta senza chiuderla. Mi inginocchiai ed aprii i suoi pantaloni. Presi il cazzo in bocca. Ero di nuovo eccitata e anche lui lo era. Lo succhiai per pochi minuti e quando mi accorsi che stava per venire gli impedii di allontanarsi dalla mia bocca. Mi venne in bocca, in tanti piccoli getti. Mi staccai da lui ed buttai giù tutto il suo sperma. Era il mio regalo. Lo baciai delicata sulle labbra. Avevo incrinato la sua sicurezza, ora sembrava imbarazzato, a disagio. Ci salutammo senza dirci arrivederci. Salii sull’aereo. Il sedile di fianco al mio era ancora vuoto. Mi frugai nella tasca del cappotto, tolsi il fallo e lo appoggiai sul sedile. Mi sedetti spostando il cappotto da sotto, col sedere direttamente sulla plastica. Con le mani separai leggermente le natiche in modo da sentire il fallo. Poi l’aereo decollò.

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  • 1 mese dopo...
Ti consiglio il film "Secretary" se non l'hai ancora visto.

Si tratta sto tema, anche se è molto soft diciamo.

Finalmente l'ho visto, e mi sono accorto che l'avevo già visto anni fa quando ste cose non mi dicevano niente, quindi l'ho rivisto volentieri.

Voglio anche io una segretaria cosi... :-)

Giuro!

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  • 2 settimane dopo...
  • 1 anno later...

"Si erano incontrati per un aperitivo le due ragazze e l'ingegnere 42enne e avevano fatto probabilmente uso di alcol e droga"

Ma che vuol dire questa frase? Che tipo di giornalismo sarebbe questo, giornalismo intuitivo? Se ci sono dei risultati medici ben vengano i conseguenti articoli di giornale. Ma questo è solo il solito triste modo di buttarla sul "non date troppa importanza a quello che è successo, erano solo i soliti quattro drogati di merda".

Comunque queste notizie, non so perchè, sono sempre quelle che mi fanno pensare istintivamente ai genitori della vittima. Non male come motivo di orgoglio, scoprire il modo fantasioso con cui la tua stirpe sia riuscita a decedere prima del dovuto.

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Comunque queste notizie, non so perchè, sono sempre quelle che mi fanno pensare istintivamente ai genitori della vittima. Non male come motivo di orgoglio, scoprire il modo fantasioso con cui la tua stirpe sia riuscita a decedere prima del dovuto.

cioè? In che senso? Tu cosa ne pensi?

Scrivendo tu sempre post interessanti, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi in materia... scusa la curiosità

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cioè? In che senso? Tu cosa ne pensi?

Scrivendo tu sempre post interessanti, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi in materia... scusa la curiosità

Apprezzo l'interesse.

Intendevo far notare, ironicamente, quanto labile possa essere talvolta il confine tra il condurre una vita normale e l'avere la vita rovinata per sempre. Un giorno ti senti soddisfatto del tuo operato di genitore: tuo figlio studia e ottiene bei risultati; fa sport e si applica; ha una bella ragazza e tanti amici; a tavola, se esce fuori qualche discorso stimolante, lo senti fare ragionamenti maturi. Il giorno dopo, grazie ai media, tutta l'Italia viene a conoscenza del fatto che tuo figlio sia morto di overdose (o che sia morto dedicandosi a passatempi erotici alquanto fantasiosi), oppure che sia andato in prigione perchè gestiva una piccola piazza di spaccio (o si dedicava a truffe consistenti).

Mi piace mettermi nei panni della gente, nella loro mente. E' l'unico modo che abbiamo per provare vera empatia verso persone altrui. In questo caso, sarei curioso di sapere cosa fiorirebbe nella testa di un genitore dopo aver vissuto un dramma esistenziale simile. Probabilmente si tratta di quelle variabili psicologiche che non puoi capire fin quando non le vivi.

Tu che ne pensi invece? Dove vedi il negativo: nel fatto che si stessero dedicando a quest'attività, nel semplice fatto che siano morti o nel fatto che i media ne abbiano ritratto la tipica immagine stereotipata dei drogati fuori di testa etc?

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