Vai al contenuto

Blade Runner


The Duke
 Share

Recommended Posts

guarda che per me sbagli.

non dico che non sia realmente deckard il 6° replicante, ma quando dice che ne mancano 3 invece di 4 lui lo dice perché si sta innamorando di rachel e la vuole tenere fuori dal "ritiro".

del resto Deckard è malconcio prima di essere picchiato da lion perché gliele aveva suonate la tipa col pitone artificiale

purtroppo io la prima versione pubblicata non sono mai riuscito a vederla, ho sempre e solo visto la dcut.

sapete mica se giri su emule o simili? anche in inglese per me è stata introvabile

il film mi ha fatto saltare (ed innamorare di conseguenza) solo quando ho visto l'ultima scena davanti all'ascensore.

per quanto mi riguarda non starei qui a parlare di BR se non avessi visto la dcut

Link al commento
Condividi su altri siti

guarda che per me sbagli. non dico che non sia realmente deckard il 6° replicante, ma quando dice che ne mancano 3 invece di 4 lui lo dice perché si sta innamorando di rachel e la vuole tenere fuori dal "ritiro".
Nemmeno per sogno. I replicanti da ritirare sono quelli fuggiti. Rachel non è fuggita da nessuna parte, lei nemmeno sa di esserlo! Ma questo non è oggetto di didscussione perchè è stato spiegato diffusamente in un libro di 400 pagine con la storia dettagliata del film.
del resto Deckard è malconcio prima di essere picchiato da lion perché gliele aveva suonate la tipa col pitone artificiale

Nemmeno per sogno! Stesso discorso fatto qui sopra: lui è malconcio per una scelta di montaggio per non contraddire quello che pronuncia.

Link al commento
Condividi su altri siti

Nemmeno per sogno. I replicanti da ritirare sono quelli fuggiti. Rachel non è fuggita da nessuna parte, lei nemmeno sa di esserlo! Ma questo non è oggetto di didscussione perchè è stato spiegato diffusamente in un libro di 400 pagine con la storia dettagliata del film.

Mah, per me ti sbagli: perchè mai Deckard e Rachel scappano ben sapendo di essere inseguiti, se lei non fosse "da ritirare"?

Modificato da Ronnie Rava
Link al commento
Condividi su altri siti

Mah, per me ti sbagli: perchè mai Deckard e Rachel scappano ben sapendo di essere inseguiti, se lei non fosse "da ritirare"?

Evidentemente è un po' che non lo vedi ;)

Rachel NON SA di essere un replicante fino a che non glielo rivela Deckard. A quel punto lei piange e lui la consola. Addirittura le fa dire che lo ama per dimostrarle che è "umana" come una donna vera pur essendo sintetica. Quindi lei non può far parte del gruppo di replicanti che lui deve "ritirare".

Link al commento
Condividi su altri siti

Rachel NON SA di essere un replicante fino a che non glielo rivela Deckard. A quel punto lei piange e lui la consola. Addirittura le fa dire che lo ama per dimostrarle che è "umana" come una donna vera pur essendo sintetica. Quindi lei non può far parte del gruppo di replicanti che lui deve "ritirare".

Questo non dimostra nulla... visto che Deckard stesso si è innamorato di lei, è ovvio che non avrebbe nessuna intenzione di ritirarla, anche se fosse stata nella lista.

Link al commento
Condividi su altri siti

Questo non dimostra nulla... visto che Deckard stesso si è innamorato di lei, è ovvio che non avrebbe nessuna intenzione di ritirarla, anche se fosse stata nella lista.

I replicanti da ritirare sono fuggiti da non mi ricordo dove. Sanno chi sono e ne visionano perfino le schede a monitor. Rachel non fa parte di quel gruppo. E' un giocattolo strafigo (e strafiga) di Tyrell stesso che ne decante le doti tutto fiero.

Link al commento
Condividi su altri siti

Ah, un'altra cosa: il fatto che Deckard sia un replicante in effetti non è chiarissimo, nel director's cut. Ma solo nella versione italiana.

Infatti le parole "finali" del poliziotto giapponese, che vengono riproposte fuori campo anche quando Deckard ritrova l'unicorno nel pianerottolo, sono state tradotte: "peccato che lei (Rachel) non vivrà, sempre che questo sia vivere".

In realtà nella versione originale dice così: "It's too bad she won't live. But then again, who does?"

Ora, non ho una totale dimestichezza con la lingua inglese, ma mi sembra che con la seconda frase insinui chiaramente il dubbio che ognuno potrebbe essere un replicante.

Link al commento
Condividi su altri siti

"It's too bad she won't live. But then again, who does?

La versione D.C. italiana dice che Rachel deve essere eliminata? E lo dice il poliziotto prima che Deckard le faccia il test? Deckard non sapeva che fosse un replicante fino a che non le fa il test, questo è sicuro.

La frase che riporti si traduce con: E' un vero peccato che lei non vivrà. Ma, del resto, chi lo fa?

In pratica chi è che vive per sempre?

Link al commento
Condividi su altri siti

La versione D.C. italiana dice che Rachel deve essere eliminata? E lo dice il poliziotto prima che Deckard le faccia il test? Deckard non sapeva che fosse un replicante fino a che non le fa il test, questo è sicuro.

Preso adesso pari pari dal film

Brian : ne restano 4.

Deckard : 3, ne restano 3

Brian : sono 4. c'è quel lavoro in pelle che hai scandagliato alla tyrrel corporation, quella rachel. nemmeno sapeva di essere un replicante

Link al commento
Condividi su altri siti

Blade Runner, il mito degli androidi

di Debora Zampa

Blade Runner è uscito nelle sale cinematografiche nel 1982; il suo non fu un successo immediato, il pubblico e la critica si mostrarono infastiditi da un film così ambiguo e inquietante che, se pure non attuò una rivoluzione del mezzo alla maniera di Godard o di Kubrick, operò comunque un rilevante mutamento di prospettiva all’interno del panorama cinematografico di notevole portata. Già nella seconda metà degli anni ’80 il film, con il trionfo della nuova narrativa, sensibile al fascino della sua suggestiva atmosfera cupa e degradante, è divenuto un cult movie, il manifesto del cyberpunk sia da un punto di vista stilistico che concettuale.

Blade Runner si impone per una magistrale costruzione della scena, dell’ambiente, per una rigorosa organizzazione visiva che aderisce sapientemente alla struttura concettuale della storia. Qui il tema della contaminazione coinvolge la sostanza del cinema e diviene linguaggio, all’interno di una precisa e stringente corrispondenza fra i temi visivi, affidati per intero alla luce, all’occhio e allo sguardo, e quelli concettuali.

Il protagonista di Blade Runner, Deckard (Harrison Ford), è un ex poliziotto, che viene costretto a riprendere, seppur involontariamente, la sua professione. Egli sembra connotarsi subito come un disadattato, un emarginato, rinchiuso in un’impenetrabile solitudine, che continua la sua esistenza per inerzia più che per una sua precisa e cosciente volontà. Il suo sguardo assente, straniato simboleggia proprio la sua mancata integrazione sociale che richiama quella dei personaggi della narrativa cyberpunk. Deckard riceve il compito di eliminare cinque replicanti del tipo Nexus 6, fuggiti sulla Terra dalle colonie extramondo per cercare il proprio Creatore (Tyrrell). Questi esseri artificiali, prodotto della genetica, vogliono ottenere la possibilità di avere più vita di quella che è stata a loro concessa, 4 anni.

Il primo replicante con cui Deckard si scontra è Zhora che dopo un accanito inseguimento viene eliminata, poi è la volta di Leon, “ritirato” grazie all’aiuto di Rachel, ed in seguito di Pris, uccisa dopo una feroce lotta. L’ultimo dei replicanti con cui egli si deve confrontare, nella sequenza più lunga (13 minuti e 50 secondi) e più drammatica dell’intero film, è Roy Batty. Quest’ultimo, durante un’interminabile colluttazione, si diverte a demolire progressivamente l’avversario, spezzandogli un dito per ogni compagno ucciso, mentre spiega il dramma di essere organismi creati per una vita troppo breve, per essere sfruttati dal sistema. Inaspettatamente, mentre Deckard è appeso al cornicione di un palazzo ed è sul punto di cadere, Roy decide di salvarlo, donando la vita a chi ha più tempo dinanzi a sé. Poco dopo, essendo egli giunto al limite della durata di vita concessagli, lo vediamo spirare, mentre una colomba bianca si libra in aria. Il protagonista, ormai sensibile all’umanità dei replicanti e nauseato dal suo lavoro, invece di terminare la sua missione uccidendo anche Rachel, di cui è innamorato, decide invece di scappare con lei verso un futuro incerto.

Blade Runner è un film chiaramente incentrato sul tema della fuga, sia i replicanti che Deckard fuggono ad una condizione di miseria, di alienazione, con la speranza di trovare un nuovo paradiso terrestre. Il film opera una rivoluzione nella rappresentazione degli esseri artificiali, prodotto di una tecnologia altamente avanzata. E’ proprio un tale significativo mutamento, unito alla particolare atmosfera creata magistralmente da Scott, ad inserire Blade Runner all’interno di una cinematografia cyberpunk. La differenza tra l’uomo ed il suo simulacro diviene labile, invisibile, impalpabile e pertanto intrinsecamente e irreparabilmente inquietante e perturbante.

Ciò è particolarmente vero nella versione del film definita director’s cut, uscita nelle sale nel ’92 e fatta passare per quella originale, voluta inizialmente dal regista e poi modificata per la volontà dello Studio. Qui la presenza di una sequenza in cui Deckard sogna un unicorno sembra suggerire la sua identificazione con un replicante: il protagonista sulla cui umanità non avevamo dubbi si rivela essere l’altro, il nemico, all’interno di un orizzonte di senso in cui vengono arditamente abbattute le barriere, demolite le soglie, fulcro delle nostre tradizionali, semplicistiche e binarie percezioni. Nella versione del ‘92, inoltre, non vi è traccia di un esplicito lieto fine, non vediamo Deckard e Rachel fuggire insieme verso un paesaggio naturale radioso, solare mentre una voce fuori campo ci rassicura sul loro futuro; il loro destino è lasciato nell’ombra, in quell’oscurità opaca, contaminata, in cui la luce ed il buio, il bene e il male, si scontrano, si contagiano, si mescolano inscindibilmente in una lotta senza fine, in cui nessuno dei due elementi riesce a prendere il sopravvento sull’altro. Similmente nei romanzi della nuova narrativa non vi è possibilità di salvezza: la fuga da una cruda e violenta realtà è pensabile e realizzabile solamente nello spazio virtuale della rete.

I replicanti di Scott per essere riconosciuti tali vengono sottoposti ad un test oculare, detto Voigt Kampff, in cui viene analizzato, osservato e scrutato attentamente il loro occhio.

L’utilizzo di una sofisticata macchina permette all’uomo di individuare sottili reazioni della retina, causate da domande finalizzate a provocare l’emotività degli interrogati.

Il confine tra naturale e artificiale sembra essere identificata per la società di Blade Runner con la capacità di provare emozioni, sentimenti; sembra risiedere in un luogo diafano, oscuro alla visione, l’anima, che da sempre si presenta come l’elemento misterioso e distintivo dell’uomo, che lo innalza al di sopra delle altre creature dell’universo.

Il film è una profonda riflessione sulla nostra incapacità di “vedere” in un orizzonte di senso dominato dal simulacro, dall’artificio, dalla cultura, in un mondo in cui persino gli animali autentici sono scomparsi e sostituiti con le loro copie tecnologiche.

“Il tema fondamentale del film è lo sforzo dello sguardo di rompere l’opacità, di aprirsi una via al di là dei muri e dentro i corpi, per renderli trasparenti e penetrare la dimensione segreta che può dirci che cosa è umano e cosa non lo è”.

Frequenti sono i richiami simbolici all’occhio e allo sguardo.

Nella sequenza di apertura ci appare un’immagine ingigantita dell’occhio su cui si riflettono le luci e le fiamme della città, seguita da un’immagine al dettaglio di un altro occhio, quello di Leon sottoposto al test. Altri elementi possono essere richiamati a tale proposito, come la visita al Chew’s Eye World, l’omicidio attraverso la distruzione degli occhi, l’utilizzo da parte di Tyrrell di un paio di lenti trifocali che ingrandiscono la parte del viso retrostante, la presenza di occhiali giocattolo nell’abitazione di Sebastian. Sin dall’inizio del film i replicanti sono resi riconoscibili per lo spettatore grazie alle foto segnaletiche di cui vediamo le immagini sul computer; non viene prospettata la possibilità dei replicanti di prendere le sembianze di altri esseri umani, fatto che invece è presente nel romanzo di Dick. Al massimo nel film possono cambiare look, si pensi al make up aerografato di Pris. Scott ci presenta, dunque, immediatamente i replicanti, rinunciando così alla possibile suspence che si sarebbe creata con una loro mancata identificazione.

Nella rappresentazione cinematografica i replicanti solo occasionalmente mostrano le loro abilità sovrumane; pochi indizi ci riportano alla loro natura altra rispetto all’uomo, turbando così la tranquillità creata nello spettatore.

Scott opera, infatti, in direzione di una loro umanizzazione, come mostra esplicitamente la scena in cui Rachel, dopo una prima resistenza, dovuta alla paura e alla sorpresa di scoprire in sé la possibilità di provare amore, si abbandona tra le braccia di Deckard. Qui assistiamo ad un mutamento interiore di Rachel rispecchiato da un parallelo cambiamento esteriore; ora ci appare con i capelli sciolti, senza quel pesante trucco, da “dark lady”, che le induriva i lineamenti del volto. In questa scena vengono anche meno le sue precedenti inquadrature riprese dal basso, con luci tagliate e gli effetti illuministici del film noir. Una differenza fondamentale tra Blade Runner ed il romanzo, da cui il film trae liberamente spunto, risiede proprio nel modo di presentare i replicanti.

Come afferma lo stesso Dick “ Nel romanzo i replicanti sono odiosi... crudeli, freddi e senza cuore. Non hanno empatia...e non si preoccupano di cosa succede alle altre creature. Sono essenzialmente meno che umani. Scott li ha considerati dei superuomini senz’ali...”[1]. Dick, infatti, rappresenta i replicanti come nemici degli uomini, come esseri che più che non umani sembrano inumani, malvagi ed indifferenti; nel romanzo persino l’amore tra Deckard e Rachel corrisponde ad un piano di quest’ultima per porre fine alla caccia dei replicanti fuggiti. Scott, al contrario, ci mostra i replicanti come creature capaci di sviluppare una coscienza e dei sentimenti, come esseri che non minacciano l’esistenza dell’uomo anche se ne minano involontariamente l’identità. Essi sono animati dal desiderio di integrarsi all’umanità, sono ossessionati dal bisogno di avere una vita biologicamente indeterminata invece di una geneticamente programmata. Come sostiene Menarini contro le interpretazioni marxiane di Blade Runner: “nel film non c’è un solo momento nel quale gli androidi sembrino spinti alla rivoluzione da una fame di giustizia sociale. Non è la rivolta degli schiavi per una vita migliore: è la rivolta dei condannati a morte per avere più vita. “Vivere nel terrore” per essi significa aspettare la morte. L’esigenza di sopravvivere oscura tutte le altre.”[2]

A differenza del romanzo in cui essi sono chiaramente il simbolo del male, nel film i replicanti si confondono il più possibile con gli uomini fino a generare un’irrisolta tensione, in cui diviene impossibile distinguere tra l’originale e la copia. Blade Runner arriva a infondere nello spettatore il sospetto che le creature artificiali siano “more human than human”, dove quest’affermazione di Tyrrell, intesa ad indicare doti fisiche, sembra allargare il suo significato fino a comprendere qualità morali. La forza del film, il suo valore per la cultura cyberpunk, risiede proprio nella tensione irrisolta, nell’ambiguità e complessità che lo permeano, al di là di una semplicistica e manichea distinzione tra il bene ed il male.

E’ proprio tale suggestiva atmosfera di indeterminatezza, di dubbio, che ha affascinato Gibson e gli altri scrittori cyberpunk. Così come quella dei replicanti, anche l’immagine dell’uomo si arricchisce di sfumature, acquista una dimensione più articolata: non più solo vittima ma anche, e forse soprattutto, carnefice. La ribellione dei replicanti, frutto del delirio umano d’onnipotenza, sembra quasi ottenere, con il procedere del film, uno statuto di legittimità. Non a caso Scott si distacca dal romanzo nel modo in cui viene motivata l’esistenza del limite standard per i replicanti: per Dick esso è chiaramente rappresentato come un effetto collaterale del processo di fabbricazione, mentre il film sembra suggerirci che il tempo limite di 4 anni sia un’opera intenzionale, per impedire che le creature sviluppino dei sentimenti.

In Blade Runner, i replicanti così come l’uomo sono illuminati da una luce opaca, sporca, “contaminata dalle tenebre”[3], da una luce “che porta i segni della lotta col buio”[4], col male. Diviene impossibile per lo spettatore, confuso, spaesato e irritato, prendere posizione dinanzi agli accadimenti del film; da un lato egli si trova a provare pietà per i replicanti, per il loro crudele destino, per la loro ingiusta morte, su cui il regista indugia con l’utilizzo dello slow motion, mentre, dall’altro, li percepisce come pericolosi, minacciosi e pertanto eliminabili. Come sostiene La Polla “i replicanti di Scott assomigliano troppo ai loro creatori, e in qualche modo ne minano l’identità”[5]. Dinanzi alla possibilità dei replicanti di provare sentimenti il test Voigt Kampff si colora di nuova luce nella mente dello spettatore.

Ci domandiamo, come fa Matteuzzi: “è la presenza o l’assenza di emozione, o è piuttosto un’emozione sconosciuta che turba la struttura dell’occhio?”[6]

Lo stesso critico cinematografico ci fornisce la risposta sostenendo, nella sua ricca analisi del film, che “qualsiasi differenza raccolta dall’analisi oculare non può essere che un pretesto umano per credere ancora a una differenza emotiva, per rivendicare l’unicità dell’uomo”[7]. Il dialogo che caratterizza il test oculare si svolge in una assoluta virtualità, in quanto il nucleo del dramma, della differenza, è impenetrabile allo sguardo umano.

Blade Runner è ancora pervaso dalla paura, troppo spesso inconfessata, rimossa dall’uomo, di riconoscere che “l’altro da sé è il sé senza alcuna certezza della propria origine e del proprio futuro”[8], dal timore di scoprirsi replicanti, magari di generazioni inferiori. Questa paura latente e inespressa è il fattore che distanzia maggiormente il film dalla poetica cyberpunk, è l’elemento che ne fa un precursore, un antesignano, piuttosto che una sua compiuta espressione. Nella società avanzata del futuro dipinta dalla nuova narrativa l’integrazione e la contaminazione tra uomo e tecnologia è un fatto ormai compiuto. I personaggi non hanno più bisogno di credere in una differenza tra il naturale e l’artificiale ma cercano coscientemente l’ibridazione con la tecnologia, sia tramite alterazioni tecno-cibernetiche, sia attraverso la manipolazione genetica. Ciò che nel film è visto come devianza (la manipolazione genetica è finalizzata alla creazione di potenti ed efficaci schiavi da sfruttare) nei romanzi cyberpunk è la norma.

I Plasmatori dipinti da Sterling altro non sono che un ulteriore e perfezionato sviluppo della figura dei replicanti di Scott, immagine di un uomo prodotto in laboratorio e considerato, pertanto, una macchina costituita di parti smontabili e sostituibili, più che un unicum.

In un mondo cupo e corrotto in cui è stata sancita la morte di Dio non ha più senso fare dello sguardo, specchio dell’anima, il luogo privilegiato di una differenza; l’occhio può quindi essere tranquillamente essere potenziato da innesti chirurgici. Mentre nei film precedenti la creazione del simulacro si situa all’interno della tradizione del “mad doctor”, in cui permane un certo alone misterico, magico, in Blade Runner la fabbricazione di replicanti ha assunto ormai un carattere industriale; Tyrrel è colui che controlla una complessa catena di montaggio, di cui fanno parte Chew per la creazione degli occhi e Sebastian per il DNA. I Nexus 6 sono soggetti ad un’esistenza accelerata, priva di infanzia e di adolescenza, in una parola di un passato, necessario per maturare un bagaglio di esperienze su cui si regge l’identità dell’individuo.

Per ovviare a tale mancanza che nei primi tipi di replicanti si risolveva in comportamenti eccentrici in situazioni inattese, essi sono stati dotati di memoria artificiale, tema che rientra in quello propriamente cyberpunk degli innesti cerebrali. Questo fatto alimenta l’illusione di umanità nei Nexus 6, i quali si aprono, in tal modo, alla nostra compassione.

Menarini si chiede dove sia il confine tra l’uomo ed un organismo che ormai ha sviluppato un proprio pensiero e dei sentimenti, e che soprattutto non è consapevole di essere artificiale.

Il replicante costringe l’uomo a confrontarsi con l’angoscia della sua riproducibilità, egli anticipa le questioni attualmente sorte con il dibattito sull’ingegneria genetica, sul Progetto Genoma, sollevando, così, gli eterni interrogativi: chi siamo? Perché ci troviamo qui? Cosa significa essere umano?

In Blade Runner l’uomo, con la sua fede nel Voigt Kampff, giustifica a se stesso lo sfruttamento dei replicanti considerati come forza lavoro, come oggetti privi d’identità, liberandosi così dal peso di dubbi etici. Bryant, il capo della polizia, li definisce in gergo “lavori in pelle” e la loro morte è indicata come semplice “ritiro”, leggittimando l’orribile fine di Zhora a cui Deckard ha crudelmente e freddamente sparato alle spalle.

Ma come afferma Pris, rispondendo ad una domanda del disegnatore genetico, “non siamo computer, Sebastian, siamo fisici. Io penso, Sebastian, quindi sono”.

Il rapporto tra l’uomo ed i replicanti è racchiuso simbolicamente nella sequenza relativa alla partita a scacchi, che riproduce la conclusione di una famosa partita realmente giocata a Londra nel 1851 e nota come “the immortal game”. Essa riflette la lotta tra l’uomo, che considera i replicanti come pedine da rimuovere, e questi ultimi, che anelano a divenire immortali (una regina), ad ascendere al cielo. In tale partita la figura di Roy, prima ancora del celebre finale, si carica di una dimensione spirituale. Egli infatti, dopo la mossa di Tyrell con un pezzo per tradizione privo di intelletto o spirito, Cavallo mangia Regina, risponde e vince la partita con una mossa, Alfiere in Re 7, che asserisce, appunto, il suo primato spirituale.

Tyrrell in tal modo è ridotto ad un falso profeta, ad un falso Dio, come mostrano esplicitamente i suoi enormi occhiali, simbolo della sua imperfezione e della sua incapacità visionaria.

Tema Leaver ha rilevato una certa analogia tra la figura dei replicanti e quella dell’IA propria dei romanzi cyberpunk, poiché entrambi questi prodotti dell’uomo, costruiti per essere dei semplici strumenti, arrivano a rivendicare la libertà di crescere e svilupparsi autonomamente, e, soprattutto, si caricano di connotati spirituali. In Blade Runner paradossalmente sono proprio i replicanti ad essere “più definiti e caratterizzati che non le persone massa che percorrono la megalopoli. La popolazione rimane informe, insensibile, socialmente e umanamente assente, priva di reazioni persino quando Deckard uccide Zhora in mezzo al traffico, tra negozi e passanti”[9]. Il replicante, come afferma Matteuzzi, sembra essere il frutto di una produzione in serie, industriale, ed al contempo di un lavoro artigianalmente sofisticato. Ognuno di loro ha caratteristiche proprie che lo rendono un essere unico della sua “specie”.

L’uomo al contrario conduce, senza averne la consapevolezza, un’esistenza meccanica: è un prodotto della moderna società capitalistica da cui è plasmato.

Mentre Deckard aderisce anche se involontariamente al sistema, accettandone le regole, i replicanti si pongono come antagonisti nei confronti di una società che pretende di decidere per loro, e rivendicano la loro libertà d’arbitrio. L’umanità dipinta da Scott sembra essere in qualche modo deteriorata: Bryant, il capo della polizia, è sovrappeso, fuma e beve; Gaff, aspirante blade runner, cammina con un’andatura zoppicante, sostenendosi a un bastone da passeggio; Chew, che costruisce occhi, è vecchio e debole; J. F. Sebastian soffre di "decrepitezza accelerata" e anche il Signore di Los Angeles, il dottor Eldon Tyrell, è costretto a portare occhiali ridicoli e ingombranti. Per ironia solo i Replicanti si avvicinano a una condizione ideale e, anzi, sembrano essere divenuti “more human than human”, come mostra l’ascesa di Roy, nell’emblematico finale, da figura luciferina a figura messianica.

Egli è caduto dall’Eden, le colonie extramondo, all’inferno, la Los Angeles buia, priva della luce del sole, costantemente bagnata dalla pioggia, simbolo del diluvio universale, e in cui le fiamme dell’industria s’innalzano fino al cielo. In Roy, figura più complessa del film, si fondono due miti biblici: la rivolta degli angeli e la creazione dell’uomo.

Come scrive Desser “come Adamo nel giardino, Batty è stato creato da Dio (Tyrrel) per vivere nel suo Eden, ovvero l’extra-mondo. Ma Batty vuole più risposte alla propria esistenza. La sua “caduta”... è paragonabile all’atto di cibarsi all’albero della conoscenza del Bene e del Male”[10]. In tal modo si crea un ulteriore analogia tra l’uomo ed il suo simulacro che si inserisce in quella ricerca di equivalenza che anima l’intero film e che lo contrappone al romanzo. La sequenza finale rappresenta il culmine del processo di umanizzazione dei replicanti. Roy alla fine salva la vita a Deckard forse perché, come quest’ultimo afferma, “in quel momento amava la vita più di ogni altra cosa; non solo la sua vita, ma la vita di tutti”; a testimonianza di ciò una colomba bianca s’innalza in un cielo di un colore così puro da risultare innaturale, ma dal chiaro valore simbolico.

Blade Runner è costellato di temi sotterranei di carattere religioso, mistico, filosofico, ma nel segmento finale ci troviamo dinanzi a simbolismi fin troppo scoperti, che spingono verso un’esplicita identificazione di Roy con Cristo, quali: il chiodo nella sua mano e la colomba bianca. L’inquietudine che suscita Blade Runner deriva dal fatto che “la vita immessa nell’artificio trascina in basso la stessa idea di vita umana. L’artificio tecnologicamente avanzato, capace di sfiorare il limite della perfezione, rivela all’uomo come la sua stessa vita non sia che un pessimo surrogato”[11].

E’ proprio un tale superamento della condizione naturale dell’uomo, considerata incompiuta, imperfetta, che viene dipinto dal mondo cyberpunk. Ma Blade Runner non rappresenta l’apoteosi dell’uomo, non è un inno alla sua potenza capace di eguagliarsi a quella di Dio, ma sembra essere piuttosto un’amara constatazione della miseria umana. Paradossalmente la volontà di potenza connaturata all’uomo è destinata a svelare il mistero della vita, lasciando quest’ultima, tradotta in termini fisico-matematici, spoglia della sua antica sacralità.

Il suggestivo “Sprawl” di Scott: spazio privo di direzione e di dimensione

Verso un cinema che privilegia la resa atmosferica

Questo film ha segnato indelebilmente l’immaginario collettivo per la pittoresca e suggestiva immagine della società futura che ci offre, oltre che per la sua regia.

La cinepresa è in continuo movimento, essa “costeggia l’architettura, la gente, le cose, si insinua nella folla, penetra nelle case”[12], ci mostra un universo caotico, disordinato, in cui di tanto in tanto compaiono gadget tecnologici luminosi e spesso rumorosi.

Il cielo è solcato da astronavi, le strade sono sovraccariche di persone di razze e culture diverse, prive di un linguaggio comune, ovunque segnali luminosi e giganti video pubblicitari che colpiscono immediatamente la nostra attenzione mentre gli abitanti della futura Los Angeles sembrano esserne indifferenti, muovendosi come automi tra la folla, sotto un incessante pioggia. Lacerti di epoche lontane nello spazio e nel tempo si sovrappongono in modo amorfo. Montagne di rifiuti sono sparse ovunque, teppisti e sventurati si aggirano tra l’immondizia ed infrastrutture degradate. La metropoli è una “superficie-fogna... underground maleodorante. Appena al di sopra della cappa nebbiosa, puzzolente e degradata, comincia il dominio architettonico dei potenti...I grattacieli, liberati dalla popolazione sovrabbondante (il contrario della terra svuotata di Dick, dove gli abitanti sono tutti ormai approdati alle colonie extra-mondo), sfidano il cielo, salgono appunto dimostrando la propria superiorità”[13].

L’universo di Blade Runner è una Babele linguistica che richiama lo Sprawl di Gibson: “le voci si riducono ad un brusio caotico, ogni parola deborda nel non senso e nell’espressione gutturale”[14]. Persino per richiedere un piatto di spaghetti Deckard in una scena iniziale del film deve ricorrere ad una complicata gestualità. Come ha osservato Mario Pezzella nel film di Scott “lo spazio incombe privo di direzioni e di dimensioni”[15], riflettendo in tal modo lo spaesamento dell’uomo contemporaneo, che rischia di essere sopraffatto da una quantità sorprendente di mutamenti di cui non riesce a scorgere la reale portata.

Tramite la magistrale disgregazione filmica dello spazio e della normale percezione umana, cifra stilistica di "Blade Runner", Scott è riuscito a dipingere sullo schermo lo Sprawl gibsoniano, estensione infinita di territorio totalmente urbanizzato, senza più marche che identificano zone, segmenti, senza più possibilità di orientarsi dentro ad un pulviscolo urbano uniformemente diffuso, caotico, senza assi cartesiani.

Sin dalla sequenza iniziale, in cui un’astronave della polizia porta Deckard alla Tyrell Corporation, il regista ci pone dinanzi al disfacimento dello spazio: “è un’inquadratura dall’alto verso il basso, da un punto di vista più elevato della sommità dei palazzi, vertiginoso, perché proveniente da un luogo in cui non si può supporre alcuno sguardo umano, dove potrebbe esserci solo l’occhio di una potenza impenetrabile o del nulla stesso. L’astronave si abbassa a livello dei palazzi, risale, e giunge infine sopra il tetto della Tyrell. Qui atterra con un movimento rotatorio, a vortice, che coinvolge la macchina da presa e annulla di nuovo la percezione normale dello spazio”[16].

Ancora, si può citare la sequenza in cui Deckard insegue freneticamente Zhora.

Qui siamo dinanzi ad un montaggio rapidissimo in cui i punti di vista si sovrappongono e si contraddicono, lasciando lo spettatore stordito dalla tempesta di stimoli, provenienti da un ambiente pregno di uomini, luci, colori, che aggredisce il suo sguardo.

Paradossalmente il film di Scott, considerato il manifesto di una cinematografia cyberpunk, rappresenta una realtà non tanto futuribile, si pensi ai videotelefoni che Menarini ha giustamente definito d’epoca pre-cellulare. Eccetto per un computer, che obbedendo alla voce di Deckard segmenta una fotografia, in Blade Runner “non troviamo la civiltà del computer, anche se la scienza è tanto sofisticata da “duplicare” gli esseri umani”[17].

Come sostiene Scott stesso “quando si inventa una storia futuristica, a meno che il salto in avanti non sia di duecento o trecento anni, non si vedono cambiamenti così radicali. Cinquant’anni non bastano”[18]. La strategia che il regista attua per raffigurare la futura Los Angeles è quella autenticamente cyberpunk di estendere “i caratteri nocivi della società degli anni ’80, quali la metropoli caotica, la nipponizzazione dell’occidente, la sempre più drammatica sperequazione tra ricchi e poveri, l’inquinamento selvaggio, una scienza priva di legislazioni in materie bioetiche”[19].

Tuttavia il film si allontana dall’universo cyberpunk per la rappresentazione di una tecnologia arretrata rispetto al tempo in cui è stato realizzato il film.

Mentre la nuova narrativa ci dipinge in maniera vivida, precisa, un futuro incombente, prossimo, non troppo distante, in cui l’informatizzazione della società è un fatto ormai compiuto, "Blade Runner", al contrario, “non getta in faccia allo spettatore il “meraviglioso” dell’ultra tecnologico... resistendo alla tentazione della città... completamente digitalizzata, videogame”[20]. Anche nell’utilizzo della luce Scott predilige un certo gusto retrò, rifacendosi ad una tecnica propria dei film noir degli anni ‘40-’50: il low key, che consente di ottenere forti contrasti tra luce ed oscurità, in cui quest’ultima assume un peso maggiore rispetto alla prima. Scott stesso riconosce il suo debito con il noir, la cui atmosfera ha ispirato la narrativa ed il cinema cyberpunk: “la mia intenzione era quella di girare un film ambientato fra quarant’anni girato con uno stile di quarant’anni fa”[21].

In Blade Runner “la luce fatica a farsi strada, filtra in lame sottilissime attraverso le finestre, viene distribuita dalle pale rotanti dei ventilatori sul soffitto, sciabola dall’alto, dai fari fissati sotto le auto volanti della polizia...Replicanti, poliziotti, abitanti vivono in una continua penombra”[22]. Matteuzzi ha giustamente notato che “la lucentezza, la trasparenza sono proprie degli oggetti (vetri, specchi, l’asfalto bagnato della strada) che non dello spazio”[23], in cui domina una luce opaca, corpuscolare, richiamante l’atmosfera dei quadri fiamminghi. Nel moderno cinema di fantascienza si sono compiuti dei tentativi per recuperare una tale qualità luminosa, una tale resa atmosferica, come ad esempio nel film Hardware, ma in generale è prevalsa la tendenza, supportata dalle nuove tecnologie digitali, di realizzare una luminosità innaturale, diffusa e vivida, unita a colori patinati e vividi, lontani dalle tonalità cupe e spente di Blade Runner.

Per Scott la luce assume un’importanza primaria, come dimostra il fatto che spesso è lo stesso attore ad adattare il suo corpo a determinati effetti luminosi.

Matteuzzi racconta che, durante le riprese, “Sean Young (Rachel) era costretta a recitare alcune scene tenendo il busto e la testa perfettamente immobili per permettere a sottili fasci luminosi rossi di riflettersi sulle sue pupille in modo da rendere una particolare luminosità dell’occhio”[24].

Blade Runner “ha relativamente poche sequenze computerizzate, predilige modellini, set arredati, e persino ambienti naturali delle due coste statunitensi”[25].

Nel film, percorso da un certo gusto retrò, la cosa non ha perso il suo valore ontologico, qui “la civiltà dell’artificiale è ancora un universo tangibile”[26].

Ciò è evidenziato nel fatto che i replicanti nel 2019 credano ancora alle fotografie, come mostra Rachel che adduce come prova della sua umanità le foto d’infanzia, confidando sulla loro capacità di rappresentare oggettivamente la realtà. Persino Deckard affida la sua caccia ad immagini fotografiche che egli esamina nel dettaglio.

Diversamente, nella società evoluta di Gattaca, film di Andrew Niccol del 1997, nessuno guarda più le fotografie sui documenti; ormai si ha la consapevolezza del valore ingannatorio delle immagini e dello sguardo, che hanno perso ogni valore di certificazione della realtà nell’epoca della riproducibilità e della simulazione. Meglio quindi un prelievo di sangue dal polpastrello e un esame ematico che non lascia adito ad equivoci e a dubbi.

Blade Runner non arriva a mettere in dubbio lo statuto ontologico della realtà, il valore di verità e credibilità dell’immagine, non riesce a raggiungere la lucidità e profondità visionaria propria dello sguardo cyberpunk. Ciò induce Canova a considerare il film ormai invecchiato, sorpassato, sebbene ne riconosca il valore fondante per la poetica e l’estetica cyberpunk. Anche se sappiamo che le foto dei replicanti non appartengono a loro tuttavia siamo sicuri che esse hanno avuto luogo, “che qualcuno è stato là, ma non il possessore della foto, anzi non il possessore di quella memoria”[27].

Anche i replicanti conservano la loro concretezza, essi sono creature in carne ed ossa, lontani dal cinema metaforico e computerizzato degli anni ’90 che fa uso di doppi, di sosia, di esseri capaci di entrare e nascondersi dentro chiunque.

Blade Runner sembra essere “sospeso tra rappresentazione della condizione postmoderna e grande affresco conclusivo della modernità”[28]. Il film di Scott utilizza la pratica del miscuglio, della confusione di stili, di persone e di oggetti che si pongono su diverse scale temporali, propria dell’estetica postmodernista. Come spiega Harvey “la Tyrrell Corporation ha la propria sede in qualcosa che assomiglia alla replica di una piramide egizia, colonne greche e romane si mescolano nelle strade con riferimenti all’architettura maya, cinese, orientale, vittoriana e ai moderni centri commerciali”[29].

Ma Blade Runner suscita “impressioni che prima di tutto ci appaiono moderniste”[30].

Nella società che ci viene mostrata si riscontra una tendenza totalitaria, simboleggiata dalle imponenti architetture, propria della modernità, “notoriamente avvinta da stretti legami con le derive autoritarie”; inoltre “i replicanti di Blade Runner e il cacciatore Deckard sono ancora agitati da sogni e domande di uomini ottocenteschi, prenietzschiani. La crisi della modernità è nelle cose del film, dai costumi alle scenografie, all’architettura”[31].

Il film di Scott, estremamente complesso ed ambiguo dal punto di vista stilistico e figurativo, è stato definito modernista, postmodernista e cyberpunk. In effetti è difficile ridurre ad una sola definizione un’opera così ricca e complessa che ha segnato profondamente la storia del cinema contemporaneo.

Blade Runner ha reso possibile un superamento della rappresentazione dello spazio per selezione, per semplificazione, funzionale alla logica narrativa, drammatica del film.

Mentre le opere cinematografiche classiche avevano per protagonista le masse, le grandi folle (Griffith, Eisenstein, Ford, Lang) e quelle moderne avevano focalizzato la loro attenzione sull’individuo e sulle sue relazioni interpersonali, il cinema contemporaneo, interiorizzando l’insegnamento di Scott, s’interessa all’ambiente, allo spazio, acquisendo una nuova dimensione: quella sociologica.

In Blade Runner, proprio come nella narrativa cyberpunk, è l’ambiente a portare il peso della narrazione, mentre i personaggi assumono una forma quasi fumettistica, privi come sono di approfondimento psicologico, si pensi in particolare a Deckard, che sembra non superare le convenzioni del genere poliziesco. Matteuzzi ha notato che nel film “lo spazio non è mai totalmente vuoto...ma è corporeizzato attraverso la combinazione della luce con l’aria, la polvere, il fiato, l’umidità, con vapori, o con residui di un moto i cui effetti ancora si prolungano, di un primitivo Big Bang”[32].

Il fascino ipnotico dell’ambientazione di Blade Runner risiede nel fatto che Scott “non mira ad una composizione dell’immagine ma ad una concentrazione atmosferica”[33].

Il regista lavora per potenziare l’effetto di realtà della futura Los Angeles da lui dipinta.

Esemplificativo in tal senso è il rinnovamento di un FX consolidato, quale il sistema tradizionale di produzione della pioggia tramite motopompa e idrante, che per Scott non risultava sufficientemente credibile. Egli, come ha riportato E. Pasculli, “ha prima filmato alcune scene senza effetto pioggia nei totali, poi ha preparato i mattes della pioggia filmandola di fronte a uno schermo nero e in controluce, con inquadrature in campo medio, lungo e ravvicinato”[34]. Come sostiene Douglas Trumbull, già supervisore degli effetti speciali per 2001:Odissea nello spazio, in Blade Runner “gli FX non sono stati fatti per essere i protagonisti della scena, sono stati concepiti unicamente in funzione della storia”[35].

Uno dei fattori determinanti della credibilità del film è senza dubbio anche la presenza di Syd Mead, noto esperto in décors dell’avvenire che ha contribuito alla realizzazione di Star Trek e Tron. Il ruolo rilevante che per Scott assume l’ambiente deriva probabilmente dall’esperienza maturata durante la realizzazione di una grande quantità di spot pubblicitari.

Qui si ha poco tempo per raccontare una storia, bisogna saper concentrare e dosare sapientemente gli effetti, imparando ad utilizzare tutti gli elementi e le possibilità che il mezzo offre. Ciò permette di superare un atteggiamento diffuso che privilegia il testo, la parola, rispetto a ciò che non è verbale. Ad influenzare lo stile cinematografico del regista deve aver contribuito anche la sua predisposizione per il disegno e per la pittura, per un’arte muta, in cui si lasciano parlare le cose. In Blade Runner l’ambientazione è talmente ricca e suggestiva che a volte il dialogo, pur se ridotto, sembra più una minaccia all’illusione drammatica che un supporto ad essa.

non credo che ci sia altro da aggiungere no? ;)

Link al commento
Condividi su altri siti

visto e, al contrario di quello che ho letto sopra (da parte di davide credo), secondo me vedendo prima questo film è più difficile capire che lui è un replicante nel secondo.

la voce narrante aggiunge molti dettagli al film, c'è da dire però che il finale è veramente oltraggioso (testualmente): "Rachel era speciale, non aveva data di termine. Non sapevo quanto saremo stati insieme, ma chi è che lo sa?"

Finale degno per un romanzo di Harmony

Modificato da NoRegrets
Link al commento
Condividi su altri siti

  • 13 anni later...

Join the conversation

Puoi postare adesso e registrarti in seguito. If you have an account, sign in now to post with your account.

Ospite
Rispondi a questa discussione...

×   Pasted as rich text.   Paste as plain text instead

  Only 75 emoji are allowed.

×   Your link has been automatically embedded.   Display as a link instead

×   Your previous content has been restored.   Clear editor

×   You cannot paste images directly. Upload or insert images from URL.

Caricamento...
 Share

×
×
  • Crea Nuovo...